Skip to main content

il Manicomio Giudiziario all’epoca del Codice Rocco

il Manicomio Giudiziario all’epoca del Codice Rocco
admin ajax.php?action=kernel&p=image&src=%7B%22file%22%3A%22wp content%2Fuploads%2F2024%2F12%2Fmanicomio giudiziario codice rocco - manicomio giudiziario

Data di pubblicazione:

21 Dicembre 2024

Autore:

Lorenzo Meniconi

Anno di pubblicazione:

2024

Le misure di sicurezza nel Codice Rocco: un tempo, ben prima che si parlasse di Ospedali Psichiatrici Giudiziari o, addirittura, di REMS si parlava di Manicomio Giudiziario.

Fu il Codice Rocco, del 1930, a istituire i Manicomi Giudiziari o, per meglio dire, a regolarli in maniera più precisa rispetto al passato introducendo un sistema rigido e indeterminato che rispondeva a logiche e finalità di rigore proprie di della politica criminale di uno stato autoritario.

Il Codice Rocco, infatti, introdusse l’istituto delle Misure di Sicurezza, una “nuova categoria” di sanzioni di “difesa sociale” rapportate alla sola pericolosità del soggetto e prive di una durata massima predeterminata.

Se oggi il presupposto per l’applicazione delle misure di sicurezza è, oltre alla commissione di un reato, una valutazione da svolgersi caso per caso circa la pericolosità sociale del soggetto, il Codice Rocco si limitava ad elencare una serie di “categorie” di soggetti pericolosi (tra cui l’infermo di mente) la cui pericolosità sociale era presunta. L’art. 204 comma 2 c.p. infatti (prima dell’abrogazione avvenuta nel 1986) elencava delle presunzioni assolute che imponevano al giudice l’applicazione della misura di sicurezza, senza lasciare spazio a nessuna valutazione in relazione alla sussistenza della pericolosità sociale nel caso concreto. Il sistema di presunzioni ex lege del Codice Rocco non era molto diverso dalle ordalie medioevali, ove ci si affidava all’individuazione di ‘segni’ del giudizio di Dio che rendevano obbligata una determinata decisione.

Il presupposto della pericolosità sociale, cioè la probabilità di commettere nuovi fatti previsti dalla legge come reato, era -ed è- il perno attorno al quale ruota l’intera disciplina delle misure di sicurezza. Il concetto di pericolosità sociale nel Codice Rocco si sposava perfettamente con l’orientamento della psichiatria degli anni ’30, che vedeva nella malattia della mente un coefficiente destinato ad aumentare esponenzialmente la pericolosità del soggetto, a causa dell’imprevedibilità dei suoi comportamenti violenti (al contrario della malattia del corpo, coefficiente che invece riduceva la pericolosità dell’individuo). In quest’ottica, la collettività poteva essere tutelata soltanto con l’internamento del reo-folle e dunque non c’era bisogno né di esaminare il caso concreto né di valutare misure alternative all’internamento; si perseguiva con priorità assoluta la finalità della tutela sociale e, solo in via subordinata ed eventuale, la cura dell’internato.

Anche la durata potenzialmente illimitata della misura di sicurezza era perfettamente coerente con la funzione difensiva per cui le misure di sicurezza erano state previste: se la loro funzione è quella di proteggere la società da un soggetto pericoloso, la loro durata non poteva che essere correlata al persistere della pericolosità.

Il Manicomio Giudiziario: in questo articolo, che non ha certo pretese di esaustività sul tema, parleremo in particolare del ricovero in Manicomio Giudiziario (art. 222), ovvero la misura di sicurezza più afflittiva tra il ricco novero previsto dal Codice Rocco. L’applicazione del ricovero in manicomio giudiziario non era sempre subordinata a una concreta valutazione circa la pericolosità sociale del soggetto dato che, come abbiamo detto, in moltissimi casi veniva presunta ex lege.

Il ricovero in manicomio giudiziario era la misura di sicurezza maggiormente afflittiva non soltanto per via il limite massimo di durata indeterminato o per le molte ipotesi di presunzione di pericolosità sociale ma anche per le modalità organizzative, funzionali proprie del luogo ove alla misura di sicurezza veniva data esecuzione giudiziario: il Manicomio. In linea teorica il Manicomio tutelava la società dal soggetto pericoloso fornendogli al contempo le dovute cure ma, come sappiamo, nella pratica finiva per risolversi in un istituto dalla mera funzione contenitiva da cui una volta entrati era difficile, se non addirittura impossibile, uscire.  Queste istituzioni rappresentavano infatti il prototipo perfetto di fusione tra carcere e manicomio, dove non si considerava la possibilità di curare il paziente ma ci si preoccupa solo di isolarlo, così da preservare la collettività dal pericolo di recidiva. Nella realtà i manicomi giudiziari, infatti, somigliavano più a penitenziari che a ospedali dove poter elargire le adeguate cure ai rei folli (d’altronde, il manicomio giudiziario nacque in origine proprio come istituto di pena speciale).

L’idea dell’infermo di mente come soggetto “naturalisticamente” pericoloso infatti tendeva (ma, nell’opinione comune, tende ancora oggi) a rassicurare: “è caduto un aereo, è stato un atto terroristico? No, è impazzito il pilota. Meno male”. Perché che a delinquere siano i “diversi” è sempre rassicurante, magari un pò razzista ma comunque rassicurante.

Infatti, il fatto che il soggetto che delinque possa non essere poi così diverso come ci piacerebbe che fosse ci costringe a porci delle -scomode- domande su noi stessi.

Costituzione e Manicomio Giudiziario: quando nel 1948, entrò in vigore la Costituzione, il manicomio giudiziario, e le misure di sicurezza in generale, dovettero fare i conti con i principi costituzionali appena emanati. Furono molte le critiche mosse al cosiddetto sistema del “doppio binario” tra pena e misura di sicurezza: la pena era riservata al reo imputabile mentre la misura di sicurezza veniva applicata al reo non imputabile; tra i due provvedimenti dunque avrebbe dovuto esserci una sostanziale differenza nel contenuto, altrimenti si sarebbe finito per applicare una pena mascherata da una diversa denominazione al soggetto non imputabile.

Si incominciava ad affermare che la misura di sicurezza dovesse assumere una funzione di risocializzazione e offrire a quei cittadini che partivano da una posizione di svantaggio -come gli infermi di mente- gli strumenti idonei a consentire loro di svolgere la propria personalità.

Dunque anche gli istituti dove si eseguivano le misure di sicurezza (e, in special modo il manicomio giudiziario) avrebbero dovuto avere dei particolari accorgimenti a finalità terapeutica, distinguendosi dagli istituti carcerari, e presentando caratteristiche simili a quelle degli ospedali e degli istituti di sanità mentale.

In questa nuova ottica si affermava che la misura di sicurezza rivolta ai non imputabili era giustificata dalla finalità terapeutica che veniva ad assumere; finalità però che, nei fatti, data la portata enormemente afflittiva delle misure di sicurezza, veniva puntualmente disattesa finendo per rimanere soltanto sulla carta.

Occorre tenere a mente che la Costituzione, quando all’art. 32 parla di diritto alla salute, descrive un diritto inviolabile e che, come tale, deve essere garantito in tutte le situazioni, comprese quelle in cui il soggetto si trova a subire una restrizione della propria libertà (sia essa per l’applicazione di una pena o di una misura di sicurezza). Andava facendosi largo l’idea secondo cui l’art. 32 Cost., avrebbe dovuto illuminare la disciplina delle misure di sicurezza sia sotto aspetti organizzativi che sotto aspetti istituzionali: se la funzione del manicomio giudiziario era terapeutica la sua ragione d’essere allora risiedeva nelle particolari esigenze di terapia di cui necessitava il folle reo rispetto al folle comune. Di conseguenza il manicomio giudiziario non doveva limitarsi a recludere il malato di mente autore di reato ma doveva anche essere in grado di offrirgli una terapia efficace (doveva dunque, come minimo, presentare requisiti analoghi a quelli delle strutture che, all’esterno, si occupavano di provvedere alla salute dei malati di mente).

Purtroppo queste idee rimasero per molto tempo soltanto parole; infatti il sistema del ricovero in manicomio giudiziario, così come delineato dal Codice Rocco, inizierà a scricchiolare soltanto a partire dagli anni ’70 col fiorire delle norme assistenziali e terapeutiche. Questo periodo di novelle legislative vedeva il malato di mente come titolare di una serie di diritti, tali da imporre limitazioni alla potestà coercitiva dello Stato nei suoi confronti. Se nella legislazione civile assistevamo all’abolizione del connubio tra malattia mentale e concetto di pericolosità (specialmente con la cd legge Basaglia), nel sistema penale però continuavano a prevalere le istanze di difesa sociale che oscuravano -quasi- completamente le istanze terapeutico-riabilitative.

il Manicomio Giudiziario all’epoca del Codice Rocco
admin ajax.php?action=kernel&p=image&src=%7B%22file%22%3A%22wp content%2Fuploads%2F2024%2F12%2FLorenzo Meniconi - manicomio giudiziario

Lorenzo Meniconi

Nato a Volterra nel 1990 ho, da sempre, scrutato con curiosità i relitti del manicomio e ascoltato con avidità i mille racconti su di lui che girano in ogni angolo della città.

Nel 2017, quando l’ultimo OPG (l’erede del manicomio) chiudeva i battenti e si aprivano le REMS, ho colto la palla al balzo e incentrato il mio lavoro di tesi in Giurisprudenza su questo aspetto.