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La lobotomia: un metodo di cura del suo tempo

Lobotomia – ©Illustrazione di Gemma Salvadori

La lobotomia, una delle pratiche più controverse nella storia della medicina psichiatrica, ha rappresentato una soluzione terapeutica adottata durante il XX secolo per il trattamento di disturbi mentali gravi. Sebbene oggi sia vista come una procedura obsoleta e dannosa, va contestualizzata nell’epoca in cui si sviluppò, un periodo in cui le opzioni di cura per malattie mentali erano limitate. Questo articolo analizza la storia della lobotomia, il suo uso all’epoca e il suo impatto in strutture come l’Ospedale Psichiatrico di Volterra, uno dei principali ospedali psichiatrici in Italia.

Che cos’è la lobotomia?

Una procedura neurochirurgica che consiste nel recidere le connessioni tra il lobo frontale del cervello e altre aree cerebrali. Ideata negli anni ’30 dal neurologo portoghese António Egas Moniz, la lobotomia venne proposta come trattamento per pazienti affetti da schizofrenia, disturbo bipolare, depressione resistente e altre patologie mentali debilitanti. Moniz riteneva che i sintomi di questi disturbi derivassero da una disfunzione nelle connessioni neurali e che interrompendo tali collegamenti si potessero alleviare i sintomi più estremi.

La procedura fu inizialmente accolta con favore, tanto che nel 1949 Moniz ricevette il premio Nobel per la medicina. Tuttavia, questa pratica comportava rischi e conseguenze gravi. Molti pazienti che si sottoponevano alla procedura sperimentavano un drastico cambiamento nella personalità, nell’umore e nelle funzioni cognitive, spesso a discapito della loro capacità di vivere in maniera indipendente.

Il contesto storico e medico della lobotomia

Durante la prima metà del XX secolo, le strutture psichiatriche erano spesso sovraffollate e mal equipaggiate per trattare i pazienti affetti da malattie mentali gravi. L’idea che disturbi come la schizofrenia fossero causati da disfunzioni fisiche del cervello portò molti medici a cercare soluzioni invasive per tentare di “correggere” tali disfunzioni. La lobotomia sembrava offrire un’alternativa rispetto a metodi più rudimentali come la contenzione fisica o la terapia elettroconvulsiva, che all’epoca venivano usati frequentemente.

Lobotomia

La tecnica venne adottata rapidamente in Europa e negli Stati Uniti, dove il neurologo Walter Freeman sviluppò una variante della lobotomia, la cosiddetta lobotomia transorbitale. Questa tecnica, introdotta negli anni ’40, permetteva di eseguire l’operazione senza dover aprire il cranio, passando invece attraverso le cavità oculari. Il metodo risultava meno invasivo e richiedeva meno tempo, il che portò a un aumento considerevole del numero di interventi.

Il ruolo degli ospedali psichiatrici

Gli ospedali psichiatrici del tempo, inclusi quelli italiani, si trovavano a gestire migliaia di pazienti con disturbi mentali gravi, spesso in condizioni di sovraffollamento e scarsità di risorse. In Italia, venne eseguita in alcune strutture, tra cui l’Ospedale Psichiatrico di Volterra, uno dei più noti e grandi ospedali psichiatrici italiani. Sebbene non vi siano numeri ufficiali precisi riguardo all’utilizzo della lobotomia a Volterra, esistono testimonianze che documentano il ricorso a questa procedura per trattare i pazienti considerati “irrecuperabili”.

L’ospedale psichiatrico di Volterra e la lobotomia

L’Ospedale Psichiatrico di Volterra, attivo dal XIX secolo fino alla sua chiusura nel 1978, ospitava pazienti affetti da gravi disturbi mentali. Come molte altre strutture psichiatriche dell’epoca, si trovava a dover affrontare una crescente domanda di assistenza sanitaria con poche risorse e soluzioni terapeutiche limitate. La lobotomia, così come in altre parti del mondo, venne vista come una potenziale risposta per quei pazienti i cui disturbi rendevano difficile una gestione convenzionale.

Nei documenti storici legati all’Ospedale Psichiatrico di Volterra si parla dell’uso di trattamenti chirurgici e di altre terapie invasive. Nonostante la scarsità di dati specifici sulla lobotomia, sappiamo che la struttura seguiva le tendenze mediche del tempo, il che suggerisce che anche qui questa pratica trovò applicazione, seppure in misura minore rispetto ad altre nazioni, come gli Stati Uniti.

Il declino della lobotomia

A partire dagli anni ’50, con l’introduzione di farmaci antipsicotici come la clorpromazina, la lobotomia iniziò a perdere popolarità. I nuovi trattamenti farmacologici offrivano un’alternativa meno invasiva e più efficace per trattare i disturbi mentali gravi. Inoltre, l’aumento delle critiche nei confronti della lobotomia, sia da parte della comunità scientifica che dell’opinione pubblica, portò a una rapida diminuzione del suo utilizzo.

I danni permanenti causati dalla procedura, che includevano la perdita di capacità cognitive, disfunzioni emotive e, in alcuni casi, apatia grave, divennero sempre più evidenti. La lobotomia cominciò a essere vista non più come una cura innovativa, ma come un errore medico da abbandonare. A poco a poco, le tecniche psichiatriche cambiarono rotta verso approcci meno invasivi, basati su farmaci e terapie comportamentali.

Lobotomia a Volterra: chiarimenti tecnici

Per meglio comprendere il contesto e la natura degli interventi praticati a Volterra, è utile distinguere le due principali tecniche di lobotomia utilizzate nel corso del Novecento.

Lobotomia prefrontale (metodo Moniz)
Ideata nel 1935 dal neurologo portoghese António Egas Moniz, prevedeva l’apertura del cranio (tramite trapanazione) e l’inserimento di uno strumento chirurgico chiamato leucotomo, con cui si recidevano le connessioni nervose tra i lobi frontali e le altre aree del cervello. Questo tipo di intervento richiedeva un’équipe medica specializzata, l’uso di anestesia generale e una sala operatoria attrezzata. Era un intervento invasivo, ma considerato all’epoca l’unica possibilità di “contenimento” di certi stati psichiatrici.

Lobotomia transorbitale (metodo Freeman)
Sviluppata negli Stati Uniti da Walter Freeman a partire dal 1946, fu una variante semplificata e più rapida della precedente. Lo strumento utilizzato era simile a un punteruolo da ghiaccio (“ice pick”) che veniva introdotto attraverso l’orbita oculare per raggiungere la zona prefrontale, senza necessità di aprire il cranio. Bastavano pochi minuti per eseguire l’operazione, spesso anche al di fuori di ambienti chirurgici. Sebbene adottata in numerosi ospedali psichiatrici statunitensi, la tecnica transorbitale fu molto discussa e oggi è ricordata come uno dei capitoli più controversi della storia della psichiatria.


La situazione a Volterra

All’Ospedale Psichiatrico di Volterra, la lobotomia fu introdotta negli anni Quaranta, come in molte altre strutture manicomiali italiane dell’epoca. Veniva proposta per trattare pazienti affetti da disturbi psichiatrici gravi, in particolare schizofrenia, depressione cronica e stati agitati resistenti ad altre terapie.

A oggi, non esistono documenti che attestino l’uso della tecnica transorbitale di Walter Freeman a Volterra. Le cartelle cliniche e le fonti archivistiche disponibili parlano esclusivamente di lobotomie prefrontali, eseguite con tecnica chirurgica tradizionale. È dunque verosimile che a Volterra venisse adottato il metodo di Moniz, all’interno di sale operatorie e secondo le procedure mediche dell’epoca.

Questa precisazione è importante non solo per motivi tecnici, ma anche per restituire un quadro più accurato e rispettoso del contesto storico in cui tali pratiche venivano realizzate.

Conclusione

La lobotomia rappresenta uno dei capitoli più complessi e controversi della storia della psichiatria. Oggi la consideriamo una pratica invasiva e disumana, ma fu adottata in un’epoca in cui le opzioni terapeutiche erano limitate, e il desiderio di alleviare la sofferenza psichica era sincero, seppur drammaticamente malriposto. Anche l’Ospedale Psichiatrico di Volterra, come molte altre strutture italiane, fece ricorso a questa tecnica, adottando la variante chirurgica prefrontale e non quella transorbitale, più diffusa negli Stati Uniti.

La medicina e la psichiatria hanno compiuto enormi passi avanti. Oggi il trattamento dei disturbi mentali si basa su evidenze scientifiche, farmacologie più mirate e percorsi terapeutici rispettosi della dignità della persona. Tuttavia, la storia della lobotomia continua a interrogarci. Ci ricorda quanto sia importante mantenere un approccio critico, umano e consapevole nelle scelte terapeutiche, e quanto sia fondamentale investire nella ricerca per offrire cure sempre più sicure, efficaci e rispettose dei diritti di tutti.

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