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Il caso di NOF4 e lo studio delle mani.

Il caso di NOF4 e lo studio delle mani.

Riflessioni tra arte contemporanea e arte preistorica

In una caverna di una località argentina, denominata Cueva de Las Manos, sono conservate delle pitture rupestri che risalgono a 13 mila anni fa. In questa grotta sia sul soffitto che sulle pareti sono visibili in numero cospicuo le impronte delle mani di alcuni sapiens. Queste raffigurazioni sono state interpretate dagli archeologi e dagli storici dell’arte come possibili risultati di attività sacrali che prevedevano riti di iniziazione o di contatto con il mondo che potremmo definire “ultraterreno”. Tuttavia, riprodurre le proprie mani su un supporto (che sia un muro così come un foglio di carta) può essere interpretato come un tentativo generale di lasciare (e fare) un segno.

Quante volte i bambini all’asilo ritraggono su un qualsiasi foglio il contorno delle loro mani?

Quanta semplicità vi è dietro quest’azione?

Il senso di raffigurare la propria mano trova una possibile interpretazione all’interno di un’argomentazione piuttosto ampia che potrebbe essere quella della ricerca della propria identità. Allo stesso tempo, però, ci sono casi in cui l’aspetto fisico del tatto si unisce ad uno prettamente emotivo in cui, come nel caso del sapiens, la parete diviene uno specchio e la raffigurazione della mano la manifestazione dell’Io. Ma come può una produzione artistica preistorica essere un punto di riferimento in un testo che ha come argomento principale la ricerca di testimonianze relative alla storia di un manicomio? Ecco che viene chiamato in causa uno dei pazienti dell’ex ospedale psichiatrico di Volterra che più si è distinto nella storia del manicomio: Fernando Oreste Nannetti.

In un disegno del Nannetti (conosciuto anche con la sigla NOF4) possiamo analizzare dei ricalchi delle proprie mani dove, tra l’altro, in una non compare il dito indice. Sono varie e molteplici le ipotesi scaturite nel corso degli anni su che cosa volessero significare queste mani ma anche su come il Nannetti le avesse realizzate.

Quello raffigurato, infatti, rappresenta il palmo della sua mano oppure il dorso?

Stando alla prima supposizione, la mano mancante di un dito sarebbe la destra; se, invece, accogliamo come veritiera la seconda, allora l’artista avrebbe realizzato la mano destra a sinistra e la sinistra a destra, quindi incrociandole.

Analizzando il disegno, sulle dita sono presenti dei segni geometrici dalla forma ovale che alcuni hanno identificato come degli occhi, mentre altri come le sue impronte digitali o come le pieghe interfalangee palmari. A prescindere da quale teoria si abbracci, è innegabile affermare che il Nannetti ha considerato la propria mano lo strumento prediletto per comunicare ed esprimere la propria interiorità.

In relazione alla sua vita privata, altri disegni realizzati da NOF4 potrebbero addirittura riallacciarsi al suo passato, seppur breve, da elettricista. Infatti, in un altro disegno del Nannetti emergono delle circonferenze composte da raggi che rimandano sia al sistema solare (che rammenta più volte sul murale del padiglione Ferri) che a dei circuiti elettrici con le rispettive resistenze e conduttori.

Del resto la sua produzione artistica per convenienza è stata suddivisa in tre sezioni che chiamano in causa il suo famoso murale, i disegni e, infine, alcune cartoline. La raffigurazione delle proprie mani appartiene alla seconda fase che chiamerei, sempre per convenienza, fase personale. Durante questa, Fernando abbandona in maniera definitiva la scrittura e si dedica completamente al disegno. Tra foglio e foglio si riconoscono alcune rappresentazioni dalla matrice semplice, come stelle o geometrie elementari, fino a complessi (o impensabili) simboli tra cui, ad esempio, navi spaziali, atomi e figure antropomorfe.

Ci sono dei casi in cui le pagine sono talmente occupate da questi disegni che non è nemmeno più visibile il foglio bianco; altri, invece, in cui il tratto della penna è così marcato, estremamente veloce e confusionario che impedisce di concepire ogni possibile chiave di lettura.

L’utilizzo totale dello spazio è una costante indelebile in NOF4: i disegni venivano ripetuti fino allo sfinimento e non appena lo spazio sul foglio terminava, ne prendeva uno nuovo e ricominciava a disegnare.

In altri fogli, invece, si può ammirare una maggior cura dei dettagli come, ad esempio, la ripetizione delle sillabe riposte secondo uno schema speculare. Stesso dettaglio è presente con i numeri, in particolar modo con le date.

Egli replicava costantemente gli anni più importanti della sua vita come ad esempio:

  • 1927 (anno della sua nascita)
  • 1947/48 (l’anno prima del suo arresto)
  • 1956 (anno in cui fu recluso al Santa Maria della Pietà a Roma)

Infine, nella fase personale vengono mostrate forme e figure che potrebbero essere ricondotte alla vita reale. In un disegno si può apprezzare un tentativo di rappresentazione della chiesa di San Girolamo, situata ancora attualmente nei pressi dell’ex Ospedale Psichiatrico. Tra i dettagli che spiccano nel confronto tra la realtà e l’immagine del Nannetti vi sono il campanile e la facciata della chiesa.

Ciò che colpisce di questa cospicua produzione artistica è il fatto che ogni singolo foglio realizzato dal Nannetti (così come il murale) si apre a una miriade di interpretazioni possibili, che possono essere lette sulla base di riferimenti personali o come un flusso di coscienza emotivo che viene sfogato sul supporto.

Il filo rosso che unisce il tempo preistorico con i nostri giorni è quello che in filosofia viene definito con il termine di sentire. L’arte si dimostra essere un canale centrale (e non periferico) per l’essere umano con il quale riesce a esprimere e sfogare la propria sfera emotiva sopra un supporto.

Mettere a confronto un paziente psichiatrico con alcuni sapiens vissuti oltre dieci mila anni or sono potrebbe sembrare azzardato, ma in realtà non lo è affatto. A porre in relazione questi due soggetti è l’intenzione creativa del processo di realizzazione dell’opera d’arte. Infatti, da un lato il sapiens vede nella grotta lo specchio della propria anima dove è libero di decidere se riportare una scena venatoria oppure la propria mano.

Dall’altro il Nannetti, nella sua totale libertà creativa, vede il foglio/murale come la pagina di un diario personale in cui va a toccare diversi argomenti tra i quali spiccano rimandi alla vita personale, alle geometrie, fenomeni entoptici o costruzioni che solo per lui avevano un significato. Quelli che ad oggi potrebbero essere interpretati come dei semplici “scarabocchi” (ossia l’equivalente del non-senso, arrivando perciò a destituirli del loro status

artistico) sono in realtà delle opere d’arte a tutti gli effetti. Dalla produzione all’interpretazione, il meccanismo non cambia: il fare segno e il lasciare un’impronta di sé e del proprio Io interiore è ciò che interessava sia ai sapiens che al Nannetti.

L’arte diviene, in questo modo, la vera manifestazione della propria coscienza, anche quando a farla è un soggetto riconosciuto incosciente dalla società come NOF4.

Ma quindi un folle può essere un artista?

Cartesio sosteneva che la follia dipendesse da una mancata e totale assenza di ragionamento e riflessione. Nelle sue meditazioni il filosofo attribuiva al folle il titolo di demens così come quello di insanus che, nel ‘600, possedevano una valenza giuridica e medica nonché relativista. L’intelletto, sempre per Cartesio, rappresenta il salvagente della ragione che impedisce al demone maligno, portabandiera della follia, di rendere gli uomini stolti e, appunto, folli. Foucault, al contrario, riconobbe in questi meccanismi di pensiero un vero e proprio imprigionamento metafisico degli individui che avrebbe condotto, non a caso, alla costituzione degli ospedali psichiatrici. L’artista folle non è in grado di esprimere ragionamenti o tenere orazioni pubbliche, tuttavia è in grado di manifestare la propria coscienza e dimostrare il proprio io attraverso delle procedure che fuoriescono dal parlato e coinvolgono la sfera artistica e creativa. In alcuni casi, infatti, è l’immagine che prende il posto della parola, laddove quest’ultima non riesce a esprimere a pieno un concetto.

È così che la res picta si fonde con il verbum dando maggior enfasi al pensiero espresso.

Ne è un esempio il foglio 169 del volume XIII dell’Archivio di Casa Buonarroti appartenuto a Michelangelo. Nel recto di tale foglio sono conservate delle terzine di Ben Doverrieno al sospirar mie tanto scritte dall’artista a seguito della morte del fratello Buonarroto, avvenuta nel 1528. Il verso, invece, riporta una versione più breve dello stesso componimento con la differenza che, nel rigo in cui l’artista dà voce al suo dolore, la scrittura si interrompe, la frase rimane incompiuta e ruotando il foglio di 90° Michelangelo traccia sulla metà della pagina rimasta bianca la propria mano sinistra.

Ben douerrieno al sospirar mie tanto 
secharsi oma' le fonti, il mare e ' fiumi,
se non gli riempiessi 1 el mie gran pianto.
Così taluolta e' nostri ecterni lumi
l'un caldo e l'altro freddo ne ristora,
acciò che 'l mondo pur non si chonsumi.
Così taluolta fa chi s'innamora
che con dilecto a morte si conduce,
che contr' al suo uoler non uuol che mora.
Così la uiolente e aspra pena
ch'i' porto al cor di te m'è tanto cara,

Il dettagliato rilievo anatomico mostra l’indice disteso alla maniera delle maniculae medievali, con l’intento di richiamare l’attenzione sul punto in cui la poesia era rimasta incompiuta.

Leonard Barkan ha spiegato come da un lato metonimicamente la figura rende presente sul foglio la persona del poeta-artista che ha scritto il sonetto e disegnato la propria mano, dall’altro l’indice puntato quasi ad accarezzare l’aggettivo “cara” conferisce al testo un pathos che le parole, da sole, non avrebbero. Il dito si fa tutt’uno con la parola riuscendo in questa maniera ad evocare e decifrare gli spazi della commossa interiorità di Michelangelo.

Andrea Ribechini

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