La partecipazione dei ricoverati dell’ospedale psichiatrico agli scavi del teatro romano (1950-1953)
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Data di pubblicazione:1 Ottobre 1971
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Autore:Enrico Fiumi
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Testata giornalistica:Volterra
Negli ambienti della psichiatria si parla oggi, come si trattasse di grandi novità, di «lavoro protetto», di «socioterapia», di «ergoterapia», di «umanizzare l’esistenza del malato di mente», d’«integrazione dell’ammalato nella società», e si dimentica che queste concezioni, sia pure espresse con parole più semplici, hanno sempre avuto, nel Ospedale Psichiatrico di Volterra, larghissima attuazione.
E se un testo di psichiatria volesse citare un grande e felice esperimento di partecipazione di ammalati di mente (e per giunta giudiziari) alla vita civile, si che respinto della società si senta un uomo utile tra glii uomini, potrebbe rifarsi agli scavi del teatro romano del quadriennio 1950-1953.
Correva l’anno 1950.
Alcuni ruderi sicuramente pertinenti a eta romana che erano tornati alla luce in Vallebuona durante lavori di sterro fatti nel 1941 per allargare I’area del campo sportivo, stavano ormai per essere seppelliti dai detriti e delle spazzature.
Dispiaceva dover rinunciare per sempre all’esplorazione archeologica della zona, ove per antica, seppur vaga tradizione, si diceva sorgesse un monumento dell’antichità classica, forse un teatro, forse un antiteatro.
Il tempo stringeva, con a stagione calcistica 1950-1951 la «buca» sarebbe stata certamente ricoperta per porre fine allo «scandalo» dei palloni che, calciati fuori area, continuamente vi cadevano.
Come fare?
La Sovrintendenza alle Antichità d’Etruria non aveva allora fondi a disposizione per campagne di scavi; il Comune non poteva impegnarsi in attività archeologiche; Il Museo Guarnacci era il più povero dei poveri.
Perché non ricorrere, pensammo, all’opera dei ricoverati dell’Ospedale Psichiatrico?
Esisteva un precedente
Nel 1926 una squadra di ricoverati aveva partecipato a una breve campagna di scavi sul piano di Castello e tutto era andato bene.
Ora il problema era assai più complesso: si trattava di imbarcarsi per un viaggio archeologico assai lungo, difficile e tormentato.
Ne parlai col direttore dell’Istituto, il prof. Umberto Sarteschi, un vero signore.
Sia perché la passione riesce ad esser convincenti, sia perché, più probabilmente la proposta gli permetteva di conciliare le sue vedute di medico con gli interessi della collettività, Il prof. Sarteschi s’ impegno a mettere a disposizione un certo numero di ricoverati.
Il presidente dell’Amministrazione ospedaliera, l’indimenticabile amico Giulio Topi fu addirittura affascinato dall’idea e fece Il possibile per agevolarne la riuscita, autorizzando il prestito di una
decauville e di altri materiali.
Il Museo riuscì a provvedere all’assicurazione dei lavoratori e a corrispondere loro un modestissimo compenso.
Il sindaco Mario Giustarini, presidente della Deputazione Guarnacciana approvo senza riserve l’iniziativa e seppe poi dirimere con impareggiabile pazienza, gli immancabili contrasti tra «archeologici» e «tifosi».
Lunedì 10 luglio 1950 gli scavi ebbero inizio con una squadra di sei ricoverati e due assistenti-intermieri che si alternavano sul lavoro.
Gli sterri dei primi giorni furono piuttosto deludenti, avendo saggiato un punto in cui la terra di riporto era
troppo spessa per essere scavata «a pozzo»; poi imbroccammo la strada giusta e l’esplorazione archeologica comincio a dare i suoi frutti.
Il direttore dell’Ospedale concesse un’altra squadra, e cosi dodici ricoverati furono i protagonisti
di una tra le più appassionanti e fortunate ricerche di monumenti del antichità.
Il 18 novembre 1950 fu in visita agli scavi Antonio Minto, sovrintendente alle Antichità d’Etruria.
Lo accompagnava anche l’ispettore Guglielmo Maetzke oggi sovrintendente.
Quella visita era molto importante in quanto dal giudizio del Minto dipendeva il futuro assetto di Vallebuona.
Si trattava di stabilire se i risultati archeologici finora ottenuti erano tali da consigliare la prosecuzione dello scavo, o se, piuttosto date le proteste degli sportivi che temevano «l’invasione di campo», non conveniva, dopo aver fatto gli opportuni rilievi e sistemati i ruderi emersi, lasciare Vallebuona alla squadra di calcio.
Da luglio a novembre si era scavato nel settore di ponente mettendo in luce la galleria o «parodos» che lega la gradinata del teatro (ormai era stato accertato trattarsi di un teatro) a vestibolo che fiancheggia la scena.
Il prof. Minto rimase colpito dall’ampiezza dei reperti monumentali; sI rese perfettamente conto che sotto il campo di Vallebuona si sviluppavano i resti di un grande edifizio, che un imponente cumolo di detriti aveva sicuramente preservati; dette il suo pieno consenso alla prosecuzione dello scavo.
Non voglio inoltrarmi in una relazione dei lavori di quegli anni, che fu del resto. da me pubblicata nel vol. IX (1955) delle Notizie Scavi dell’Accademia dei Lincei lo scopo di quest’articolo è quello di far conoscere, a chi non ha vissuto quegli avvenimenti, l’opera svolta dai ricoverati dell’Ospedale Psichiatrico per la nostra città.
Per me e per tutti coloro che seguirono lo scavo questi ricoverati non sono figure anonime, macchine dello sterro: sono uomini che mi sono rimasti impressi nella memoria e nel cuore.
Li rivedo tutti: Roncaglioni, espertissimo muratore, Porta, un giovane che fu poi dimesso, Maraschi, personaggio che con gli scavi divenne popolarissimo in Volterra.
Raccontava in modo pittoresco di aver partecipato alle avventure più straordinarie: la scoperta del Polo Nord, l’esplorazione del Sahara, la caccia alla balena.
Si contrariava facilmente e allora si sfogava su lavoro: un giorno batte tutti i primati: da solo zappò e carico trenta vagoncini di terra.
Pia, piemontese, che raccontava complicatissime storie di gelosiee, Menicucci, Salvetti, Montizio, Marchesano l’unico che ogni tanto ancora incontro.
Bruno, Montorio, Mazzoni, tutti instancabili lavoratori, che, palata di terra su palata di terra, divennero abilissimi scavini.
Né posso trascurare gli assistenti-intermieri Poli, Bruci, Logi, Vanzi, Diciotti, Bacci Gino, Bacci Mario.
Lavorarono con gli ammalati da mattina a sera.
Mai dimenticherò l’emozione e l’entusiasmo che tutti ci prese il 14 agosto 1952, quando nel canale del velario scoprimmo la grande iscrizione dei Cecina e la bellissima testa di Augusto giovinetto.
Nell’ottobre dello stesso anno 1952 il direttore della rivista edita dalla Provincia di Pisa mi chiese un articolo che illustrasse gli scavi di Vallebuona.
Acconsentii volentieri perché mi dava l’occasione di mettere in evidenza il contributo dei ricoverati.
Di quell’articolo riporto la conclusione:
«Ormai non vi è dubbio che il teatro di Vallebuona costituisce una delle opere superstiti più importanti della romanità nell’Etruria, e, quel che più conta la documentazione acquisita assicura che il suolo di Vallebuona potrà restituire l’edifizio in soddisfacenti condizini.
Il rudere, convenientemente sistemato, potrà essere usato, nella buona stagione, per rappresentazioni teatrali.
L’economia della città ne avrà un grande vantaggio.
Ma se questi risultati sono statI possibili, se la Toscana si arricchirà di un vestigio insigne, se Volterra avrà una ragione di più per richiamare turisti e studiosi, il merito è dell’Amministrazione dell’Ospedale Psichiatrico e del suo direttore.
Questi ha concesso che due squadre di ricoverati-lavoratori partecipassero a questa nobile impresa: con quanta passione e quale perizia questi uomini abbiano scavato, lo provano non solamente i ritrovamenti archeologici, ma anche l’unanime e spontaneo giudizio della popolazione»
La realtà archeologica supero poi ogni ottimistica previsione.
L’ampiezza dello. scavo e la necessita di consistenti restauri e consolidamenti determinò il massiccio intervento della Sovrintendenza alle Antichità e l’impiego di mezzi meccanici messi a disposizione dalla
Società Larderello.
E dal 1955 gli operai civili sostituirono I ricoverati.
Ma è certo che senza le campagne di scavo degli anni 1950-1953 Vallebuona sarebbe rimasto un campo di gioco da periferia.
Del teatro romano ne avrebbero forse riparlato tra mille anni.
Enrico Fiumi